domenica 10 aprile 2011

Libro 1 - Il nemico più caro - capitolo 1


Credo sia arrivato il momento che vada a prendermi un caffè. Sono inchiodata a questa scrivania da questa mattina alle 6, mi sono alzata solo per andare in bagno e mi sono fatta portare da Sarah, una delle segretarie dello studio, un sandwich al tonno con una bottiglietta d'acqua naturale, per evitare di perdere tempo prezioso e di uscire da qui ancora più tardi stasera.
Mi chiamo Emily Fischer e sono un avvocato. Lavoro da circa cinque anni per lo studio Lodge & Bennett e in tutti questi anni ho dedicato a questo lavoro circa diciotto, venti ore al giorno della mia vita per sei giorni la settimana.
Non posso lamentarmene, diventare avvocato è sempre stato il mio destino dalla prima infanzia, o almeno da quando è stato abbastanza evidente nella mia famiglia che mio fratello minore non avrebbe seguito le orme di mio padre.
Sono cresciuta a Manhattan, in un'elegante palazzina dell'Upper East Side, in un ampio appartamento, dalla cui terrazza si potevano scorgere a perdita d'occhio gli alberi e i prati di Central Park. Mio padre, Donald Fischer, era un avvocato di successo dello stesso studio per cui lavoro, diventandone socio più o meno quando sono nata. Durante gli anni che ho vissuto in quella casa la sua presenza è stata sempre limitata, e le poche volte in cui rientrava un po' prima dal lavoro, ricordo di averlo sempre visto nel suo studio, davanti al camino acceso, sorseggiando Brandy e sfogliando una copia del "New York Times", con indosso la vestaglia di raso bordeaux che gli aveva regalato mia madre e le pantofole dello stesso colore.
Ricordo che spesso entravo nello studio di soppiatto, e gli mostravo un disegno che avevo fatto o un compito in cui avevo preso un bel voto, lui posava il giornale, mi prendeva in braccio, mi dava un bacio sulla fronte e mi diceva "brava Emily, ora vai a letto", poi arrivava quasi sempre mia madre a ricordarmi che non dovevo disturbare papà, che papà era stanco. Era ancora un bell'uomo,  e sono assolutamente certa che nel corso degli anni abbia avuto un certo numero di relazioni con segretarie e colleghe varie, d'altronde non si poteva negare che fosse affascinante, con i suoi completi italiani firmati, i capelli scuri, lievemente brizzolati ai lati, la barba sempre perfettamente rasata, quell'atteggiamento sicuro e spavaldo tipico dell'uomo di successo.
Credo che mia madre lo abbia sempre saputo, ma che in fondo la cosa non le importasse un granché, aveva trascorso tutti gli anni del college alla ricerca approfondita di un uomo che le desse la possibilità di godersi la vita al massimo, e aveva individuato il soggetto giusto in mio padre, già destinato da almeno cinque generazioni ad una brillante carriera legale. Non era stato difficile conquistarlo, Diane conosceva perfettamente tutti i trucchi di seduzione, sapeva vestirsi e curarsi nel modo giusto, glielo aveva insegnato mia nonna. Papà dice sempre che sono la sua copia perfetta, ho gli stessi capelli castani un po' mossi, quel tipo di capelli che una mattina ti sembrano boccoli e un'altra vanno per conto loro, ho gli stessi occhi verdi, un po' allungati, un naso piccolo con una leggera gobbetta che mia madre ha corretto con la chirurgia estetica ma che a me va benissimo così,  e delle labbra grandi che ad alcuni fanno insinuare qualche intervento di collagene ma che in realtà sono più che naturali. Di mia madre ho anche la stessa costituzione, alta, snella, poco seno. L'aspetto fisico è stata probabilmente l'unica cosa che abbiamo avuto in comune, non era una donna capace di slanci o gesti d'affetto, a mia madre piaceva trascorrere le sue giornate dividendosi tra shopping, beauty center, palestre e circoli ricreativi in compagnia di altre donne ricche e annoiate come lei. Non credo di averla mai vista in tutta la mia vita impegnata in una faccenda domestica, con i capelli in disordine o una piega su un vestito; mi aveva insegnato perfettamente come abbinare una camicia ad un tailleur, che scarpe indossare per ogni occasione e come pettinarsi i capelli. Appena arrivai all'età giusta cominciò a riempire il mio armadio di abiti costosi, di decolleté con tacco a spillo insegnandomi per ore a camminare correttamente senza spezzarmi l'osso del collo; mi portava con lei nei centri estetici, lasciandomi sotto quel casco bollente mentre lei spettegolava con le sue amiche sfogliando riviste scandalistiche, combinava appuntamenti con i loro figli.
Io imparai silenziosamente ad assomigliarle, ma in realtà non volevo veder passare davanti a me tutta la vita tra un vernissage ed una pedicure, volevo diventare qualcuno, volevo essere come mio padre. Mi chiesi per anni quale miracolo avesse potuto generare la nascita di mio fratello, Donald Junior, per noi Donny, o Don, poiché mio padre mi raccontava sempre che dopo la mia nascita Diane non aveva più intenzione di avere altri figli, diceva che il suo corpo era diventato irriconoscibile e quel dolore era stato insopportabile; Don, invece, nacque solamente due anni dopo, e credo che non l'avessero programmato. Somigliava a mio padre come una goccia d'acqua e lui aveva riposto nel figlio maschio tutte le sue speranze per continuare la tradizione della professione; sfortunatamente capì molto presto che quelle preghiere non erano state affatto ascoltate: sin da bambino Don aveva mostrato segni di un carattere ribelle, poco incline allo studio e all'impegno, era spiritoso, divertente, scanzonato e buffo, tutto ciò che non deve essere un avvocato.
Io, d'altro canto, avevo sempre degli ottimi voti, ero una studentessa brillante e mi preparavo ad entrare a Yale. Non ebbi bisogno del suo aiuto per superare l'esame di ammissione, quando lasciai l'appartamento di Manhattan e mio padre mi accompagnò al mio nuovo alloggio all'interno del campus, gli dissi che sarei diventata avvocato, e per la prima volta nella mia vita, vidi i suoi occhi luccicare di commozione. Fu lì che conobbi Joy Nicholson, la mia compagna di stanza ed ancora oggi la mia migliore amica. Joy non era cresciuta a Manhattan come me, veniva dalle strade di Brooklin, i suoi genitori avevano una piccola tavola calda nel quartiere. Portava dei buffi capelli rossi che sembravano tagliati con l'accetta, i lineamenti delicati e sottili, una figura minuta. Diceva che voleva diventare avvocato perché odiava i bulli e i prepotenti e voleva difendere i più deboli, quelli che subivano in silenzio soprusi ed ingiustizie; non credo di aver mai sentito dire nulla del genere da mio padre, secondo lui l'avvocatura era una professione nobile, che ti rendeva forte e vincente, e non aveva importanza se ti trovavi a difendere qualcuno chiaramente colpevole, anzi, in questo modo potevi mettere davvero alla prova la tua vera professionalità, la tua abilità. Joy era riuscita ad entrare a Yale con una borsa di studio, e dopo la laurea era tornata a Brooklin a lavorare in uno studio pro-bono, che forniva assistenza legale gratuita ai meno fortunati. Guadagnava una miseria ma sembrava felice; ogni volta che riuscivamo ad incontrarci per un aperitivo non aveva mai l'aria affannata come me, non si chiudeva nel suo ufficio senza vedere né sorgere né tramontare il sole, Joy ascoltava ogni genere di storia e tutte le volte che ci vedevamo me ne raccontava qualcuna, che puntualmente mi metteva di cattivo umore.
Al mio ultimo anno di college, mi raggiunse anche Donny. Credo che mio padre abbia faticato molto per farlo ammettere, si iscrisse ad una di quelle confraternite piene di bellocci e scansafatiche e si fece notare per gli scherzi goliardici, attirando inevitabilmente l'attenzione di parecchie mie compagne di corso, che mi fermavano nei corridoi chiedendomi informazioni su di lui. Una volta una certa Jessica venne nel mio alloggio in lacrime, dicendo che avevo un fratello stronzo, che si prendeva gioco di lei; ogni volta che andavo a trovarlo per lamentarmi rideva come un matto, mi dava un bacio sulla fronte e mi diceva "voglio divertirmi, Emily...voglio godermi la vita!". Non potevamo essere più diversi di così, eppure ci siamo sempre voluti un gran bene.
Dopo la laurea non ne ha voluto sapere di chiudersi in qualche studio come un topo e se n'è andato in giro per il mondo, causando una lieve ipertensione a mio padre, passata con un ricovero di un paio di giorni. Adesso si trova in Giappone, non so bene a fare cosa, e l'ultima volta che l'ho visto è stato al funerale di mia madre.
Se n'è andata circa due anni fa, si trovava in palestra e da due ore correva sul tapis roulant, poi improvvisamente si è accasciata. Un ictus, hanno detto i medici. E' stata in coma solamente una settimana, durante la quale sono rimasta accanto a lei a curarle le unghie, farle le sopracciglia e pettinarle i capelli, perché so che lei avrebbe voluto così. Quando se n'è andata abbiamo avvisato Donny che si trovava in Europa, poi abbiamo organizzato un funerale degno di una regina mentre mio padre si preoccupava di ogni minimo dettaglio, probabilmente per non pensare a tutto il resto. Non l'ho visto piangere in quell'occasione, neanche quando la bara veniva calata nella terra umida, tutti i suoi e i miei colleghi più anziani erano presenti e probabilmente per lui sarebbe stato un segno di debolezza mostrarsi disperato per la perdita della moglie.
Don ripartì subito dopo e mio padre restò solo in quell'enorme appartamento, a sorseggiare ancora il suo brandy davanti al camino. Io mi stupii di non essere riuscita a soffrire per la sua morte, mi chiesi se la sua freddezza non avesse contagiato anche me, se non fosse entrata nei miei geni insinuandosi come un virus silenzioso, che rimane nascosto finché non ha l'occasione giusta per saltare fuori.
Avevo lasciato l'appartamento dei miei appena il lavoro allo studio, ottenuto ovviamente su garanzia di mio padre, aveva iniziato ad ingranare. Avevo scelto un piccolo appartamento a Park Avenue, non troppo grande, solo un modesto salotto con un angolo cottura di quelli con il tavolo a penisola e le sedie alte, una stanza da letto con un lungo armadio a coprire tutta la parete, per far spazio al mio fornitissimo guardaroba, ed un letto bianco con materasso ad acqua che adoro, infine un bagno con una doccia molto grande. Appena trasferita mi ero resa conto di quanto mi fosse mancata la figura di una madre, di quelle classiche, che indossano il grembiule la domenica e cominciano a rompere uova dentro un cratere di farina bianca. Mia madre non mi aveva insegnato neanche a preparare un uovo al tegamino, semplicemente perché non sapeva prepararlo neanche lei; da circa trent'anni, si affidava all'aiuto di Maria, la nostra fedelissima governante.
Qualche giorno dopo il mio trasloco mi aveva telefonato con aria preoccupata dicendomi "Emily cara, non avrai intenzione di lavarti il bucato da sola, spero! la figlia di Maria, Rosario, è disposta a venire a lavorare per te, ho organizzato un incontro per fartela conoscere!", e così avevo anche assunto una governante. Rosario parla un inglese misto a spagnolo che non riesco quasi mai a comprendere, ma va bene così perché tanto in casa non ci sono mai, è una donna grassoccia, robusta, che non teme la fatica e che indossa, da quando la conosco, sempre la stessa divisa celeste, con i capelli legati stretti in una coda e che canticchia con la musica nelle orecchie mentre pulisce in giro. Le ho sempre detto di non prepararmi la cena, invece ogni volta che rientro a casa trovo qualcosa nel microonde, non capisco se lo fa perché non comprende le mie parole, o perché le dispiace che abbia dei ritmi così incasinati.
Da circa un paio d'anni frequento un tipo, Jason Nolan, un ingegnere che ho conosciuto una sera che mi sono lasciata trascinare da Joy all'inaugurazione di una mostra a Soho di un certo Tyler, rimasto poi un perfetto sconosciuto. Jason si è avvicinato a me mentre osservavo perplessa un quadro che rappresentava una donna e un uomo intrecciati insieme, all'inizio non avevo nessuna intenzione di frequentare qualcuno, stavo dando il massimo per cominciare la mia scalata nello studio e quell'uomo più grande di me, con l'aria così posata, rassicurante, che mi guardava con ammirazione da dietro un paio di occhiali squadrati, rappresentava una specie di minaccia. Ma Jason non si era arreso, era riuscito tramite Tyler a contattare Joy e l'aveva convinta a darle il mio numero; avevo accettato di uscire con lui più per tenerezza che per reale intenzione, poi avevo scoperto che Jason, malgrado non apparisse eccessivamente sexy con quella lieve pancetta e le forme un po' arrotondate, era un uomo profondamente comprensivo, gentile e paziente.
A Joy non piaceva, diceva che era noioso, e forse non aveva nemmeno tutti i torti, ma sapeva rispettare i miei spazi, si accontentava di vedermi quando avevo un po' di tempo, mi aspettava senza dare in escandescenza nei locali dove gli davo appuntamento, ingurgitando un drink dietro l'altro, poi si faceva bastare quella mezz'ora scarsa di sesso che gli dedicavo quando lo facevo salire nel mio appartamento, per poi andarsene subito dopo, senza fermarsi a dormire da me. Io non glielo avevo mai chiesto e lui non provava a forzarmi, sapeva che dormivo già poche ore a notte e non voleva che a causa sua fossi ancora più stanca. Joy dice che Jason è il mio cane. Probabilmente ha ragione, ma in questo momento della mia vita non posso permettermi distrazioni, sono ad una svolta decisiva della mia carriera: la prossima settimana potrei diventare socio dello studio.


6 commenti:

  1. Ciao Manuela, noi non ci conosciamo ma ho già avuto modo di farti i complimenti.
    Per leggere il tuo libro ho dovuto fare un piccolo furto a Davide ;).
    Ricordi il mio biglietto?
    Ti rinnovo un profondo "in bocca al lupo" e non perdere mai di vista le tue passioni.
    Spero di leggerti presto....

    Loretta

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  2. Grazie davvero dell'incoraggiamento, non ho parole per descrivere questa immensa emozione!!!

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  3. Manu io x adesso ho letto solo la tua saga del "Il nemico più caro" ma come ti ho già detto mi hai lasciata senza parole...xciò l'unico consiglio ke sento di darti è continua così e nn abbandonare la tua passione xkè faresti un torto a te e poi a tutti noi!!!! :)

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  4. grazie cognata, ti farò leggere quanto prima anche gli altri!

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  5. Pensavo se non un film...anche un telefilm
    (1 puntata per ogni capitolo)andrebbe comunque benissimo...
    questi personaggi ci hanno conquistato, abbiamo familiarizzato con loro:
    ce li immaginiamo, li possiamo vedere, hanno un loro aspetto, una loro personalità...sarebbe bello vederli muoversi in carne ed ossa almeno come attori!!!Per non parlare poi delle ambientazioni...Chissà magari in un futuro neanche troppo lontano...io te lo auguro di cuore!!

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  6. Ciao Manuela...capito per caso su questo blog partendo dalla pagina Fb dell'amica neo-sposa Vendramin; quindi non ho potuto fare a meno di leggere un bel po' di righe di questo tuo scritto......
    Oh, ma complimenti! Un bel modo di scrivere! E le prime righe mi hanno fatto venire voglia di leggere tutto. Solo l'ora tarda me lo impedisce adesso.... se c'è un modo di proseguire, un download da fare, un acquisto da fare, fammi sapere .....
    Brava!
    Daniele Ferrando (danieleferrando@hotmail.it)

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