giovedì 5 maggio 2011

Sogni di raso- Capitolo 2

Sono sola al centro del palco, in piedi, con un’aria sicuramente impacciata e cerco di scrutare i volti di quelli che decideranno il mio destino. Porto una mano davanti agli occhi, per mettere a fuoco ed isolare quella fastidiosa luce del riflettore puntato su di me, sono già abbastanza agitata senza che ci si metta anche quel fascio di luce a farmi sudare. Non riesco a distinguere nulla, ci sono almeno cinque persone sedute a quella lunga scrivania di legno, e sono sicuramente degli eccellenti professionisti e degli spietati critici, mi chiedo se dentro di loro si sentano veramente onnipotenti come appaiono in questo momento.
- Il suo nome? – mi chiede una voce indistinguibile con un tono imperioso
- Mi chiamo Abigail Forlani, ho vent’anni e vengo da Brooklyn … - dico tutto d’un fiato, anticipando le altre due domande, voglio solo ballare, il più presto possibile.
- Cosa ha preparato, signorina Forlani? – chiede una voce femminile, potrebbe provenire da lei in persona, la signorina Kingston, una delle più celebri ed acclamate insegnanti di danza della prestigiosa scuola
- Una variazione dal Don Chisciotte … - rispondo balbettando leggermente
- Quando vuole … - aggiunge la donna, annuisco, mi posiziono, prendo un lungo respiro, poi quella musica allegra e spagnoleggiante echeggia per tutto il teatro, mi muovo, non so come ma mi muovo.
Mentre eseguo quei passi sperando che la pece sotto le mie scarpette sia abbastanza da non farmi scivolare, conto ogni secondo che il mio pezzo va avanti, se l’esecuzione viene interrotta è noto che significa che sei fuori dai giochi, se riesci a portarla fino alla fine puoi rimediare almeno un briciolo di considerazione, e passerai le due settimane successive nell’attesa di una lettera.
Incredibilmente la musica finisce, sfoggio il mio inchino più elegante, attendo mascherando il fiatone che qualcuno dica qualcosa, una cosa qualunque, li sento parlottare fra di loro, un’ansia che ti uccide
- Grazie signorina Forlani, le faremo sapere … - sento dire da uno dei membri della commissione, annuisco, esco velocemente dal palco raggiungendo le mie cose abbandonate su una sedia. Frank se  n’è andato, tutti quei volti sconosciuti mi ignorano, stanno vivendo lo stesso stato d’animo che ho vissuto io fino a pochi minuti fa. La mia tensione si sta sciogliendo lentamente, sento le lacrime affiorare , improvvisamente ho fame, sete, sonno per non aver chiuso occhio la notte precedente; mi faccio strada tra tutti quei ballerini che aspettano di salire sullo stesso palco, ho bisogno di uscire da lì, di prendere aria. Quando mi ritrovo sulla piazza del Lincoln Center mi guardo intorno, il grattacielo del campus si staglia maestoso davanti a me, non oso credere, non voglio sperare che in autunno io possa veramente essere uno degli studenti che vivrà, dormirà, mangerà all’interno di quell’edificio.
Salgo sul treno che mi riporterà a casa addentando un hot dog e mentre la sagoma di Manhattan si allontana dalla mia vista, non posso fare a meno di fantasticare. Non ho mai vissuto a New York, solo l’idea di poter frequentare tutti quei teatri e passeggiare lungo la Broadway mi fa girare la testa. Dopo aver gustato il mio panino comincio a sfilare lentamente le forcine dalla testa, fino a ritrovarmi con i miei lunghissimi capelli neri sciolti sulle spalle, così mi sento molto meglio, i capelli mi tiravano eccessivamente, mi do un’occhiata veloce nel mio specchietto, ho gli occhi venati di rosso, un po’ di occhiaie. L’aria condizionata del treno è guasta, sfilo leggermente i sandali bianchi, si è aperta di nuovo una ferita sul mio alluce, appena arriverò a casa dovrò ricordarmi di mettere un altro cerotto, è la terza scatola che finisco, questa settimana.
Torno nel mio quartiere camminando molto lentamente finché mi ritrovo davanti alla vetrina della pizzeria. “Pizza Heart” è l’attività di famiglia da qualche generazione; il mio trisavolo, originario della Sicilia, è arrivato in America con una di quelle gigantesche navi che ti facevano approdare ad Ellis Island e dalle quali vedevi la Statua della Libertà avvicinarsi sempre di più chiedendoti dove ti avrebbero portato i tuoi sogni. Lui aveva fatto il cameriere per tanti anni, suo figlio, il mio bis-nonno, era riuscito ad aprire questo piccolo locale fuori città, una modesta attività che si è tramandata fino ad oggi, e che viene gestita interamente da mia madre, dato che mio padre ci ha lasciati per un brutta malattia qualche anno fa. A dare una mano a mia madre io e mia sorella Mary Alice, che ha cinque anni più di me e da pochi mesi un bambino, Aaron, il mio nipotino adorato. Sua marito Luke è un agente immobiliare, non impazzisco particolarmente per lui, è un uomo piuttosto razionale, cinico, ma Mary Alice sembra contenta e questo è ciò che conta. Da qualche mese mia madre ha assunto anche la mia amica Susan, forse con la prospettiva di sostituirmi se davvero riuscirò ad essere ammessa alla Juilliard. Susan ha avuto qualche difficoltà ad abituarsi alle scorribande di ragazzini adolescenti che piombano nel nostro locale subito dopo la scuola; la nostra attività va a gonfie vele soprattutto grazie a loro, bisogna solo fare un po’ il callo ai lanci di pezzi di pizza e a qualche gara di rutti tra una coca e l’altra. Non che la pizzeria sia frequentata solo da ragazzini maleducati, spesso, soprattutto il venerdì sera, si affolla di coppiette romantiche e di intere famigliole. Mi piace stare lì, quando non sono in classe ad allenarmi sulle punte, faccio lo slalom tra quei tavoli di legno con la tovaglia a quadri trasportando teglie giganti da tutta la vita, e quasi mi diverto.
Quando faccio il mio ingresso nel locale mi rendo subito conto che sono tutti lì ad aspettarmi, ma che si fingono malamente indifferenti o molto concentrati su qualche attività, quasi non mi notano quando apro la porta a vetri facendo tintinnare la campanella sopra la mia testa. Susan è dietro il bancone e lo sta pulendo meticolosamente, i suoi ricci capelli rossi sono semi raccolti in una coda e ha indossato una di quelle cuffiette bianche che non ho mai sopportato, da quando lavora da noi mi sembra un po’ ingrassata, non che fosse mai stata molto magra, le ho sempre invidiato il seno prosperoso e i fianchi torniti, ma forse mia madre le sta facendo assaggiare troppe cose, ultimamente. Mary Alice siede di fronte ad Aaron nel seggiolone di legno e sta cercando disperatamente di dargli un omogeneizzato, lui sembra piuttosto contrariato, mi scappa un sorriso osservando la sua buffa espressione, mia sorella, invece, appare esausta, è così da quando è nato il mio nipotino, ma ultimamente mi sembra che si stia abituando a questa nuova vita; mia madre dice che ci somigliamo come due gocce d’acqua, io la scruto sempre alla ricerca di questa benedetta somiglianza, a parte il colore dei capelli e la figura esile, siamo sempre state molto diverse. Mary Alice non ha un briciolo di ambizione, la vita di provincia non l’ha mai annoiata, quello che ha sempre desiderato era trovare un uomo decente e sposarsi, e credo ci sia riuscita. Non riesco a localizzare mia madre, probabilmente è dietro la cucina ad infornare la sua celebre pizza con i peperoni, già me la immagino con il grembiule bianco e la fronte imperlata di sudore, mentre scosta una ciocca di capelli ormai quasi totalmente bianchi, sbuffando. Non ci sono clienti, in questo momento, c’è solo un tavolo occupato e vi è seduto David, avrà certamente staccato da poco dal lavoro e sta trangugiando una birra ghiacciata. E’ proprio lì che l’ho conosciuto un paio di anni fa, era entrato a farsi una margherita con il suo gruppo sgangherato di amici, tutti con lo stesso giubbetto di pelle ed i jeans scuciti. Aveva fatto un paio di battute simpatiche mentre gli servivo da mangiare, poi aveva cominciato a tornarci da solo. Si sedeva al bancone ed attaccava bottone con me sotto lo sguardo malizioso di mia madre, sempre molto aperta su questo genere di cose. David lavorava già da un po’ nell’officina meccanica di questo quartiere, è un po’ più grande di me, e all’inizio non ero molto convinta di voler uscire con lui, mi avvicinavo al diploma e stavo iniziando a coltivare i miei progetti per la Juilliard, ma devo ammettere che si è mostrato piuttosto paziente e che la cosa ha finito per intrigarmi, facendomi scoprire attratta da lui.
David è un ragazzo piuttosto alto, di corporatura robusta, con dei capelli castani un po’ mossi che lascia crescere sempre troppo, è incredibilmente geloso ma anche spiritoso e divertente, la mia famiglia lo ha preso in gran simpatia, tranne Luke, che lo trova immaturo ed infantile.
Finalmente David alza gli occhi e mi nota, Mary Alice si volta rimanendo con il cucchiaino a mezz’aria, Susan smette di pulire il bancone
- Johanna, è tornata! – grida Susan chiamando mia madre, che compare immediatamente scostando la tenda di plastica che divide la cucina dalla pizzeria, io mi tolgo la borsa dalle spalle, sono sfiancata
- Posso avere un po’ d’acqua? – chiedo stancamente, i loro sguardi non mi mollano un secondo, Susan corre a riempirmi il bicchiere, tutti si avvicinano mentre mi siedo di fronte al mio ragazzo, cercano nei miei occhi qualcosa che gli faccia capire se l’audizione è andata bene o no, alla fine mia madre cede
- Santo Cielo, Abby! Vuoi farmi venire un infarto? Allora, com’è andata? – chiede spazientita, tutti trattengono il fiato, io abbasso lo sguardo
- Non lo so, dobbiamo aspettare … - rispondo laconicamente
- Ma sei riuscita a completare l’esibizione? – mi chiede Susan conoscendo quanto me tutti i trucchetti che le ho raccontato in questi anni, annuisco, lei fa un gridolino
- Vuol dire che gli sei piaciuta, giusto? – dice David stringendomi una mano
- Dobbiamo aspettare … - ribadisco con un sospiro, Aaron piagnucola leggermente, mi alzo e vado a spupazzarlo un po’, lo stringo tra le braccia, gli mordicchio quelle guance paffute
- Ci aspettavamo un po’ di entusiasmo in più, Abby … - afferma mia sorella
- Scusate, ma stanotte non ho chiuso occhio, sono stremata, sono  stata ore in piedi in fila ad aspettare il mio turno, non ho mangiato quasi nulla e … -
- Ho appena sfornato una teglia, vuoi mangiare? – mi chiede mia madre lievemente preoccupata, scuoto la testa
- Se non vi dispiace ora vorrei solamente stendermi un po’, salgo a casa per riposare … ci vediamo dopo, ok? – mi avvicino a David per dargli un lieve bacio sulle labbra, lui sembra risentito, ma non gli do il tempo di ribattere nulla
- Rebecca avrà chiamato una decina di volte, Abby … - aggiunge mia madre
- Ok, la chiamerò dalla mia camera … a più tardi – aggiungo avviandomi verso la porta sul retro, quella che dà su un piccolo cortile da dove parte una vecchia scala di ferro che conduce al nostro appartamento.
Non mi volto a guardarli, so di averli leggermente delusi, ma in questo momento ho bisogno di rimanere sola con me stessa, di riordinare le idee, di ricostruire i tasselli di questa pazzesca giornata.


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